Oppy

Per la serie: Opinioni non richieste.

Oppy mi ha un po’ deluso. L’ho visto fino alla fine, anche se con un pizzico di fastidio. Perché non sono riuscito a essere partecipe del dramma morale del protagonista. L’ho capito il suo dramma, ma non l’ho sentito.

Poi, forse sto diventando senile, ma ho trovato la storia aggrovigliata, difficile da seguire.

«Make me care, please. Emotionally, intellectually, aesthetically, just make me care»

Andrew Stanton

Aesthetically, intellectually, non ho nulla da dire. Ma praticamente nessuna emozione, almeno per me.
Persino Tenet ho trovato più coinvolgente di Oppy. E in Tenet non si capiva granché.

Ho riletto La Rabbia e l’Orgoglio

Le manifestazioni di supporto ad Hamas mi hanno spinto a ri-leggere La Rabbia e l’Orgoglio. Molte delle spiacevoli sensazioni di allora sono sopravvissute alla seconda lettura, a distanza di oltre ventidue anni: il tono troppo acceso, le parole pesanti, le accuse, i giudizi sommari, il sarcasmo, il disprezzo espresso senza filtri.

Però.

Però, oggi, guardando all’essenza di quel fiume di parole, non mi sento di dar torto a Oriana Fallaci. La civiltà occidentale, nonostante i molti problemi ancora irrisolti, per quanto imperfetta in tutte le sue declinazioni, ha dato vita a società democratiche maggiormente rispettose dei diritti altrui. Sì, lo so: le troppe eccezioni, le molte cose ancora da mettere a posto; non a caso, l’autrice è similmente feroce nei confronti delle inadeguatezze e delle miserie dei politici occidentali. Della loro, e nostra di cittadini, pusillanimità.

Ho voluto rileggere la risposta di Tiziano Terzani a La Rabbia e l’Orgoglio e gli articoli che seguirono sul Corriere, il reportage che Terzani fece nei mesi seguenti all’invasione dell’Afghanistan da parte delle forze armate statunitensi e degli alleati. Un viaggio tra Afghanistan e Pakistan.
E qui ho avuto delle sorprese, cose che assolutamente non ricordavo: immagino involontariamente, alcune parti degli articoli, in particolare le interviste che Terzani faceva a capi tribù, combattenti, ma anche a persone comuni – sempre maschi –, a volte parevano confermare il pensiero di Oriana (vedi Samuel P. Huntington sullo scontro di civiltà),

«La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale.»

Samuel P. Huntington

e cioé che l’odio nei confronti dell’Occidente non nasce solo per le bombe che periodicamente cadono su quella regione o nella Striscia di Gaza, facendo innumerevoli morti, ma perché, per esempio, «Non vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia retta dalla sharia, la legge coranica […]». 

Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro.

Samuel P. Huntington

Il Golden Retriever

Il tragitto in autostrada non le prese molto tempo. Giunse all’altezza del ristorante sul lungomare alcuni minuti prima delle 20:00. Parcheggiò poco distante. Spense il motore e osservò l’insegna del locale in acciaio Cor-Ten: era sempre stata attratta da quel materiale dall’aspetto antico e solido, segnato dalle intemperie e dal tempo. Le ricordava un viaggio solitario a New York nell’autunno del 2007 al tempo della seconda retrospettiva su Richard Serra. Ah, il MoMa. Ricordava le due gigantesche installazioni nello Sculpture Garden che dava sulla 54a strada, la precisa sensazione di instabilità che le dava camminare all’interno delle due sculture, in particolare Intersection II: a un certo punto, per il disorientamento causato dalla forma dell’opera, aveva dovuto appoggiarsi a una delle pareti di acciaio. Nella sua memoria era ancora viva la sensazione di leggera ruvidezza della superficie.

Scese dall’auto. Era vestita in maniera elegante, ma sobria. Chiuse la vettura col telecomando e si girò, avviandosi verso il ristorante. A pochi passi da lei, nel semi-buio di un lampione fuori uso, un uomo vestito in modo trasandato la osservava, silenzioso; nessun altro nelle vicinanze. Le si gelò il sangue, ma nulla in lei lo diede a vedere. Si avvicinò con apparente naturalezza, l’uomo le sporse la mano, lei gli diede una piccola banconota e si diresse verso l’ingresso.
Anni prima, all’equinozio d’autunno, aveva cenato lì per la prima volta con l’uomo che sarebbe diventato suo marito; stesso tavolo all’interno, ma con vista sulla spiaggia. Dopo cena si erano messi insieme. Lei aveva capito subito che quella storia sarebbe andata avanti, che non sarebbe naufragata poche settimane, o mesi, dopo, come le altre, con un misto di delusione – odiava essere delusa – e rassegnazione. Lo aveva intuito quando, usciti dal ristorante, si erano indirizzati verso la spiaggia. Lo aveva compreso, sentito nel profondo, dal modo in cui passeggiavano: non una semplice successione di passi singoli ma, come in musica, di accordi. Armonia, questa era la parola che le era venuta in mente. Avevano parlato leggero. Non di grandi temi, ma di cose piccole, con poca importanza. Raggiunto l’inizio del vecchio molo, lei gli aveva preso la mano; lui aveva risposto stringendogliela. Si erano incamminati verso la testa fin quasi a toccare la nebbia che si stava alzando lentamente dall’acqua. Alla fine del pontile, l’aveva baciata. Tornati in città la sera stessa, avevano fatto l’amore a casa di lei. Due settimane dopo vivevano già insieme.

Lei si accomodò al tavolo, si guardò brevemente intorno: nonostante il tempo trascorso, il luogo non era cambiato granché. Studiò il menù, ricercato rispetto alla media dei ristoranti della zona. Salutò con un sorriso il maître che era venuto a prendere l’ordinazione. Per cominciare, scelse il piatto più semplice.
Quella sera di molti anni prima, lui aveva cercato di impressionarla con un piatto pomposo e uno spumante dal costo indecente. Lei era stata al gioco; tutti vogliono presentare la migliore versione di sé, soprattutto al primo incontro ufficiale. Anche lei si era mostrata al meglio, pur rimanendo il più possibile misurata nell’abbigliamento. Come sempre.

Il sommelier aprì la bottiglia di vino mettendo in scena la tradizionale liturgia. Lei provò la solita, leggera impazienza che la prendeva nell’attesa che il professionista, seppur abile e veloce, terminasse l’operazione. Prese il bicchiere dallo stelo, lo roteò due volte, annusò il vino e fece cenno di sì. Mentre il sommelier le riempiva il calice, sistemò le posate con precisione ai lati del sottopiatto.
Non avevano avuto figli, non c’erano riusciti. Dopo alcuni anni di tentativi, avevano rinunciato. Poi, dopo il lungo periodo necessario ad accettare l’idea – come un lutto per lei – avevano preso in considerazione l’adozione, ma avevano abbandonato presto questa possibilità: non faceva per loro. I loro amici, un po’ per volta si erano uniti in coppie, le coppie si erano trasformate in genitori. Loro due avevano cominciato a viaggiare più spesso da soli, occasionalmente con nuove coppie senza figli, ma con le quali non riuscivano sempre a legare. Non è semplice, da adulti, fare amicizie durature; troppo spesso, quelli che sembrano nuovi compagni di viaggio si palesano come cantonate, abbagli, non appena una certa intimità li costringe a mostrarsi. Il viaggio è spesso rivelatore: la necessità di mediazione, gli spazi condivisi, spesso angusti come quelli di un’auto, una barca o di una casa in affitto, mostrano la capacità di adattamento, i limiti. Gli spigoli di ciascuno.

Il cameriere le servì la prima portata con gesto sussiegoso. Si dilungò recitando il nome del piatto, verboso nonostante la semplicità della ricetta d’origine (in sostanza: una pasta lunga alle vongole re-interpretata). Lei attese con pazienza. Finalmente l’uomo la lasciò libera di gustare il primo piatto.
Avevano comprato un cane, Bruno, un bel cucciolo di golden retriever. L’idea era stata di lui. Lei aveva accettato, inizialmente con una certa ritrosia, il nuovo membro della famiglia; poi si era innamorata senza moderazione di questo compagno peloso. All’inizio lo portava persino al lavoro, di conseguenza era praticamente l’unica dei due a prendersene cura, suo marito occupandosi del cane solo in assenza di lei. Aveva osservato con curiosità la crescita del cucciolo, così veloce. Non comprendeva come alcune persone considerassero il cane un animale stupido solo perché fedele. Vivere con Bruno le aveva confermato esattamente il contrario: socievole – specialmente coi bambini: era uno spettacolo vederlo giocare con loro al parco, naturalmente indossando la museruola – amante del divertimento, in particolare in presenza dell’acqua, di carattere dolce, pieno di energia, intelligente. Anche un buon guardiano, seppure non un cane da difesa!

Il cameriere si avvicinò per versarle un po’ di vino. Lei terminò la prima portata, si pulì la bocca col tovagliolo e assaporò nuovamente il bianco che il sommelier le aveva suggerito. Posò il calice sul tavolo, guardò fuori della vetrata, verso la spiaggia, continuando a tenere lo stelo del bicchiere tra le dita.
Il lavoro di lei aveva preso una nuova, inaspettata piega e questo aveva portato ad alcuni lunghi periodi di assenza durante l’anno a causa dei viaggi che la costringevano in Oriente. Bruno, ormai adulto, soffriva la mancanza della sua padrona. Al ritorno da ogni viaggio, si drizzava in piedi dal momento in cui lei usciva dal taxi, si precipitava in giardino abbaiando furiosamente, quasi ad assalirla – pareva volesse fargliela pagare –, ma poi all’ultimo secondo, arrivando ai piedi di lei, si esibiva in una precisa partitura di piroette, salti, feste, uggiolii. In alcune occasioni, per l’irruenza, aveva rischiato di farla cadere. Entrando in casa, il cane continuava a girarle intorno, come a sincerarsi che la padrona non dovesse andar via subito, ma a un certo punto doveva rinunciare a un po’ di spazio e lasciarla alle attenzioni del marito.

Osservò la disposizione del cibo nel piatto della seconda portata, un piatto fondo, bianco, con una falda molto larga; una ricetta a base di molluschi adagiati su una crema di legumi al vino rosso con striature di fior di latte. Ammirava la completezza, la qualità non solo gastronomica di alcuni chef, senza commettere l’errore di definire arte il loro lavoro, non esageriamo.
Grazie all’abilità appresa in passato quando aveva frequentato per hobby alcuni corsi di cucina, a casa aveva spesso cercato di ripetere l’esperienza fatta al ristorante per la gioia non solo di suo marito, ma anche per quella del retriever, il quale poteva godere anch’esso delle attenzioni gastronomiche della padrona.
Col passare del tempo, la routine aveva offerto una cadenza rassicurante ai tre membri della famiglia: il lavoro – lei nella ricerca scientifica privata, lui nell’editoria –, i viaggi all’estero di lei, i rientri a casa scanditi dalle feste del retriever, le cene coi pochi amici, le vacanze da soli, ma sempre accompagnati dal cane: la vita di una coppia del ceto medio-alto senza figli. Nonostante la piacevole leggerezza di questa routine, lei si era chiesta, a un certo punto, se quella sarebbe stata per sempre la loro vita. Non percepiva in sé stessa, e neppure in suo marito, una vera irrequietezza, ma sentiva che per lei le eccitanti montagne russe dell’inizio del rapporto si erano lentamente trasformate in un gradevole percorso pressoché rettilineo, senza dislivelli. Le andava bene così. Anzi, non desiderava scossoni dopo la mancata gravidanza. Anche a distanza di anni, erano ancora vive le lacerazioni dell’anima che quel fallimento – tale lo considerava – le aveva portato. In alcune occasioni, aveva cercato di sondare l’animo di lui evitando però le domande dirette preferendo proporgli, invece, qualche cambiamento nella loro vita. Piccolo, all’inizio, giusto per variare la routine ormai insediatasi da tempo; ma lui niente, era felice così. Felice era proprio la parola che utilizzava. Si era spinta a proporgli di andare a vivere al mare dove si erano conosciuti, un desiderio che, molto tempo prima, suo marito aveva espresso, ma lui stava bene così, ora. Dov’era. Con lei.

Il cameriere le prese il piatto vuoto – lei si complimentò per la ricetta – e ritornò col menù dei dolci. Scelse un piatto di variazioni al cioccolato: la Sacher, mousse al cioccolato amaro, cialda all’arancia e cacao, mousse di cioccolato e melanzane. Chiese che il sommelier le scegliesse un vino dolce. Il telefono vibrò per l’arrivo di una notifica. Abitualmente non consultava il dispositivo al tavolo del ristorante, ma attendeva una comunicazione importante relativa all’ultimo viaggio di lavoro dal quale era tornata alcune settimane prima. Attivò lo schermo e lesse la notifica: bene, tutto in ordine, la merce era partita, ora si sentiva più tranquilla. La eliminò, lo spazio vuoto venne riempito dalla foto del golden retriever che lei teneva come sfondo della schermata iniziale.
Non aveva capito. È sempre così, c’è bisogno dell’accumularsi di diversi segnali prima di comprendere cosa sta succedendo: la stratificazione di singole, piccole variazioni nella quotidianità che devono raggiungere un livello critico prima di manifestarsi pienamente. Tutto era iniziato con alcune lievi, quasi impercettibili, increspature: di ritorno dal solito viaggio, il penultimo, Bruno l’aveva accolta con la consueta, irresistibile energia e felicità, ma, una volta dentro, all’arrivo del secondo membro della famiglia, il retriever si era esibito in alcune abbaiate in direzione della porta della loro stanza per poi lasciare alla coppia il solito spazio e andare a stendersi sul suo tappeto preferito. Tutto qui. Né lei, né lui avevano registrato l’evento. Anzi, lei aveva notato, abbracciandolo, che suo marito era di nuovo in forma: già poco prima del viaggio di andata aveva cominciato a correre tutti i giorni; facile per lui, lavorava a casa dove aveva trasformato una stanza poco usata nel suo studio e poteva ricavarsi ritagli di tempo un po’ come voleva. Lei, al contrario, era costretta a comprimere la sua attività fisica nella breve pausa pranzo, come tanti. Questa modifica al corpo del suo uomo, come un ritorno indietro nel tempo, le aveva riacceso il desiderio e avevano ricominciato a fare sesso con vigore e piacere.

Si abbandonò per un momento al ricordo. Accavallò le gambe.
Le variazioni di cioccolato erano fantastiche e il vino abbinato era all’altezza dei dolci. Terminò la cena e chiese il conto.
Fu in quel periodo, tra il penultimo e l’ultimo viaggio, che notò la nuova abitudine del suo compagno di tenere sempre il telefono in tasca. Quel telefono era sempre stato sulla scrivania di lui, lontano dal tavolo da pranzo e lontano dal comodino; trattava il dispositivo come un utile seccatore, un’ineludibile necessità. La risposta del marito era stata evasiva, legata al lavoro, ma lei non ci aveva dato importanza perché le cene con l’editore, un uomo detestabile, erano divenute più frequenti. Dopo la prima, alla quale aveva partecipato anche lei anni prima, aveva sempre evitato di essere presente perché quell’individuo saccente, bullo, le risultava ripugnante; nonostante la posizione economica e sociale, aveva un umorismo sudaticcio, un’arroganza da capufficio d’altri tempi. Le cene non erano piacevoli nemmeno per suo marito e avevano certamente contribuito a rendere umorale il suo comportamento, altrimenti normalmente più sereno. O almeno, questo è ciò che pensava lei.
Poi avvenne la scoperta, e ogni variazione – singolarmente irrilevante – alla quotidianità del loro vivere andò al proprio posto in un tutt’uno chiarificatore. È strano come, del tutto accidentalmente, veniamo a conoscenza di ciò che ci viene nascosto, schermato dal filtro della fiducia con la quale osserviamo il mondo. Il caso aveva voluto che un banale problema al filtro della lavatrice costringesse suo marito a levarsi l’ingombrante dispositivo dalla tasca e posarlo temporaneamente sull’elettrodomestico. Il caso aveva voluto che suonasse il telefono fisso del suo studio, che lui andasse a rispondere, dimenticandosi, per la durata della conversazione, del fortino sguarnito. Lei era lì, in funzione di assistente, in attesa che tornasse il “tecnico di casa”: lo schermo si illuminò, il mittente noto, il messaggio chiaro anche se parziale.

Fu scossa dall’arrivo del cameriere. Pagò il conto e lasciò una mancia generosa sapendo che non sarebbe più tornata. Uscì dal ristorante e si avviò, in quella prima sera d’autunno, lungo la spiaggia, verso quel molo dove, alla fine del pontile, si erano baciati per la prima volta.
Lo schermo si era oscurato, la notifica inghiottita. Non aveva mosso un muscolo pur continuando a guardare il telefono a lungo. Nonostante l’immobilità, uno sconvolgimento aveva attraversato il suo corpo, un disordine che le aveva creato un malessere insanabile. Lei uscì dalla lavanderia prima che lui rientrasse dopo la telefonata. Si rifugiò nel bagno. Rabbia, delusione, senso di colpa. Come poteva provare senso di colpa? Riconobbe la sensazione che anni prima l’aveva accompagnata per quel lungo, tormentato periodo di profondo dolore che era seguito alla mancata gravidanza. Perché? Perché quel senso di menomazione, inferiorità, vuoto, come un arto fantasma? Non era lei ad aver fatto fallire il loro progetto. O forse sì. Le settimane a seguire le trascorse, combattuta dai dubbi, tra questi stati altalenanti: la delusione, il suo corpo invaso dalla rabbia poi svuotato dal senso di colpa. Doveva fare qualcosa per lenire la sofferenza, riempire il vuoto creato dall’ingiustizia. Non rivelò nulla a suo marito della sua scoperta, non gli chiese perché, non cercò di avere ulteriori conferme: era stato varcato un confine, non c’era modo di tornare indietro.
Prese la decisione durante il volo di andata dell’ultimo viaggio di lavoro. Non impegnò neppure un secondo per considerare le implicazioni morali o giuridiche del suo intendimento: le era necessario come l’aria ottenere giustizia, perché di questo si trattava: il senso di colpa che stupidamente provava si era finalmente trasformato nella certezza di aver subito il torto più grave, e a questo doveva porre rimedio.

Giunse alla testa del molo. Il passato continuava a insinuarsi nei suoi pensieri così come aveva fatto per tutta la cena. Non si ottiene mai piena giustizia, le cicatrici non scompaiono, testimoniano il crimine subìto.
Era tornata dall’ultimo viaggio con i fiori della pianta – una specie che cresceva solo in Nord America, Cina e Sud-est asiatico – schiacciati tra le pagine dei libri che aveva sempre in valigia. Le sue conoscenze scientifiche le avevano permesso di andare a colpo sicuro. Tornata a casa, lasciò seccare le foglie e le pestò nel mortaio; le conservò nella dispensa in un barattolo anonimo. Alcuni giorni dopo ne mise un cucchiaio nei cereali della colazione di lui contando di mascherare il sapore col miele che lui aggiungeva sempre in abbondanza. Andò al lavoro in ufficio conservando una sensazione di lucida, controllata attesa per tutto il tempo. La chiamarono nel pomeriggio tardi mentre era ancora alla sua scrivania: al mattino, un passante aveva notato il corpo di un uomo in tenuta da jogging galleggiare nel fiume che attraversava la città. Aveva allertato i Vigili del Fuoco che, dopo alcune ore, avevano recuperato il corpo impigliatosi nei rami incastrati alla base di una delle pile del ponte, a valle del punto di avvistamento. L’autopsia effettuata giorni dopo rivelò l’arresto cardiaco come causa del decesso. Suo marito aveva l’abitudine di andare a correre sul lungofiume; il malore doveva averlo colto di sorpresa, la morte giunta dopo pochi istanti. Era caduto in acqua che non respirava già più. La sua morte andò a ingrossare il numero degli uomini di mezza età che improvvisamente, dopo anni di vita sedentaria, riprendevano a fare sport credendo di avere ancora vent’anni. Nonostante i loro pochi amici intimi, al funerale, laico, si presentarono in molti: era un uomo conosciuto.

Rifece il molo in senso inverso e si diresse verso il parcheggio del ristorante dove aveva lasciato l’auto. L’uomo incontrato all’inizio della serata non era più lì. Sedette al posto di guida, mise in moto e si diresse verso l’autostrada in direzione della città.
Il riconoscimento del corpo avvenne in una realtà ovattata. Rispose meccanicamente al medico legale. Una volta uscita, si stupì di non aver provato nulla. A sera tardi era tornata finalmente a casa. Rimase nell’ingresso per alcuni istanti, poi si diresse in cucina: si tolse la giacca, la mise sulla spalliera della sedia, si diresse verso il lavello, lo riempì, aggiunse del detersivo e cominciò a lavare posate e tazze della colazione del mattino. Le sciacquò accuratamente, ripose tutto nella lavastoviglie. Scelse l’opzione di lavaggio ad alta temperatura, avviò l’elettrodomestico. Andò nel salone e si sedette sul divano. Il silenzio le si rivelò nuovamente – inaspettatamente – dopo tanti anni; anche una famiglia piccola di due persone più un cane fa rumore. Il cane. Bruno! Solo allora si rese conto che il golden retriever non le era venuto incontro. Lo chiamò: nessuna risposta. Si alzò, uscì in giardino, la cuccia vuota. No, impossibile che fosse fuggito. Fece il giro della casa terrorizzata all’idea che anche lui avesse ingerito il veleno (avrebbe avuto effetto sul corpo del suo compagno peloso?). Al mattino aveva fatto attenzione che nessun avanzo rimanesse incustodito e ora aveva paura di trovare Bruno riverso sul prato di casa, ma del cane non vi era traccia. Si sedette sull’erba: l’unica possibilità era che il retriever avesse accompagnato il suo uomo – suo?, il pensiero la disturbò per un attimo – durante la corsa sul lungofiume. Non ci aveva pensato prima, non aveva considerato l’eventualità, aveva preparato il processo come in trance saltando a pie’ pari dibattimento e sentenza per arrivare direttamente alla comminazione della pena non considerando il terzo elemento del gruppo. Caduto il marito in acqua, forse Bruno si era tuffato per raggiungerlo e, stremato dalla fatica per riportarlo a riva o incastrato da qualche parte, non ce l’aveva fatta. Anche se il retriever era un ottimo nuotatore, la differenza di stazza poteva averlo tradito. Possibile? Nessuno aveva assistito alla scena, infatti solo un passante aveva notato il corpo di suo marito. Chiamò il numero delle emergenze e, riferendosi a quanto accaduto al mattino, chiese se avessero notizia del ritrovamento di un cane o del suo corpo vicino a quello della vittima. Le risposero che avrebbero trasmesso la richiesta ai Vigili del Fuoco, che a loro non risultava – e no, erano dispiaciuti, ma non potevano tornare sul luogo del ritrovamento per controllare. Mise giù il telefono e rimase a fissare il vuoto. Così come non aveva pensato alle conseguenze delle sue azioni sulla sua vita, non aveva pensato alle conseguenze sulla vita degli altri.
Attese inutilmente la telefonata per alcuni giorni sentendo che, se anche fosse arrivata, le avrebbe confermato che il suo amato Bruno era morto.

Raggiunse casa poco prima di mezzanotte. Aveva viaggiato curva, appesa con entrambe le mani al volante. Il senso di solitudine che aveva segnato le ultime settimane dopo la sparizione del retriever si era trasformato rapidamente in senso di colpa. Di nuovo. L’inattesa scomparsa del suo fedele compagno aveva aperto un vuoto enorme, una ferita che si era aggiunta alle cicatrici del passato, lontano e recente.
Parcheggiò l’auto nel vialetto di casa. Spossata, spense il motore e si appoggiò allo schienale del sedile. Rimase in quella posizione per alcuni minuti. Dal tunnel centrale dell’auto estrasse una mini-bottiglia di acqua minerale riempita a metà con una bevanda che si era preparata nel pomeriggio, prima di partire per il ristorante. La bevve in pochi sorsi. Rimise la bottiglietta a posto e si adagiò sul sedile. I ricordi cominciarono ad affiorare alla superficie della coscienza: immagini come spezzoni di video, suoni. Una debolezza violenta si impossessò del suo corpo, tanto da procurarle smarrimento. Poi la nausea, fortissima. Subito dopo sentì un’enorme pressione sul petto. Cercò istintivamente di respirare, ma il suo corpo rimase immobile. Per un momento le parve di udire il lontano abbaiare di un cane. Immaginò, in un ultimo barlume di lucidità, un istante prima che il suo cuore smettesse di battere, che il retriever si precipitasse in giardino come un tempo, felice di rivederla, pronto alle feste. Morì prima di sentirlo graffiare la portiera dell’auto.

© Paolo Nobile – Tutti i Diritti Riservati
Testo registrato su Patamu.com con numero di deposito
173290

Il Golden Retriever ha ricevuto il 1° Premio nella sezione racconti lunghi del Premio ALA 2022.

L’Etica della Vendetta

Un paio di anni fa mi sono imbattuto in un documentario molto interessante su Netflix, Voir, creato da Tony Zhou e Taylor Ramos, dedicato al cinema e suddiviso in episodi. In particolare mi ha colpito la parte dedicata alla struttura delle storie di vendetta intitolata The Ethics of Revenge.

A parte seguire i canoni aristotelici, le buone storie di vendetta hanno alcuni elementi in comune, ma uno di questi sembra essere sempre presente, il prezzo da pagare da parte del protagonista: moralmente non sarà più lo stesso.

Il colpevole muore, a volte muore anche il giustiziere, ma spesso non sono i soli a cadere.

Così mi sono divertito a scrivere Il Golden Retriever.

Continua …

Premio ALA 2022

Sabato 22 ottobre, 25°C in riva al mare, presso la Sala conferenze del Polo culturale comunale “Bottini dell’olio” di Livorno, ho ricevuto il 1° Premio per la sezione racconti lunghi del Premio ALA. Il testo presentato si intitola Il Golden Retriever ed è entrato a far parte dell’antologia che raccoglie tutti i testi premiati.

Sapevo di aver fatto un buon lavoro, ma vederselo riconoscere da una giuria è emozionante.

12 gennaio 2014

In questo giorno veniva trasmessa la prima puntata di True Detective sui canali HBO.
Serie Tv unica.

Le successive due stagioni sono certamente di buona qualità, ma non riescono a stare al fianco della prima che credo di aver visto una decina di volte. A ogni visione scopro qualcosa che mi è sfuggita in precedenza, tale è la stratificazione di informazioni da decifrare, impossibile in un colpo solo la prima volta.

Cosa rende questa serie tv – solo televisione? – distinta dalle altre? In fondo, come ha detto lo stesso Nic Pizzolatto, è la storia di un’indagine complessa condotta da due detective molto diversi l’uno dall’altro, ma che alla fine diventano amici. Mai visto?

Innanzitutto il formato antologico permette di raccontare una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine evitando il pericolo di una serialità allungata per mere ragioni di denaro dove la qualità della prima stagione, troppo spesso se non sempre, non si trasferisce in quelle successive a causa di un eterno secondo atto e un terzo deludente – quando si arriva al terzo.

Il casting perfetto, preciso anche nelle scelte dei personaggi secondari, uno tra tutti il reverendo Joel Theriot interpretato da Shea Whigham.

Un contesto geografico onirico, esoterico, motore della storia e terzo protagonista: la Louisiana, afoso e malsano Purgatorio sulla Terra dove anime in pena, soprattutto quelle dei diseredati (diseredate), cercano redenzione. E invece trovano la morte.

La distribuzione temporale della storia su tre periodi ha nel 2012 l’inizio e la fine, ma vede il maggior sviluppo nel 1995 e nel 2002, periodi protagonisti del primo e secondo atto. 

I protagonisti: Marty Hart e Rust Cohle (Woody Harrelson e Matthew McConaughey). Nonostante la grande interpretazione di Woody Harrelson, la mia attenzione va quasi del tutto al secondo personaggio: con Rust Cohle si scende in luoghi oscuri, quelli dell’anima e quelli dei bassifondi; tesi filosofiche, esistenziali, generalmente poco viste in un investigatore, che disegnano un mondo popolato da un Uomo – incidente della Natura – senza speranza, protagonista inconsapevole, meritevole di estinzione. Un pessimismo probabilmente forgiato dal dramma della morte della figlia, il fantasma che perseguita il personaggio.

Come in tutte le opere collettive, ogni tessera del mosaico contribuisce alla realizzazione dell’opera finale. Qui l’armonia tra le parti è pressocché perfetta: scrittura, regia, interpretazione, montaggio sono ai massimi livelli.

Non ricordo un’altra storia per immagini, serie Tv o film, che mi abbia trasmesso le stesse sensazioni. Finora.

Nobody Knows Anything

È l’affermazione, ripetuta più volte, fatta da William Goldman a pagina 39 del suo Adventures in the Screen Trade – A Personal View of Hollywood (*). E se lo scrive uno dei più celebrati sceneggiatori di Hollywood, ci sarà una ragione.

[…] the single most important fact , perhaps, of the entire movie industry:

NOBODY KNOWS ANYTHING.

[…] Not one person in the entire motion picture field knows for a certainty what’s going to work. Every time out it’s a guess.

William Goldman

In questo bel libro – e, in piccola parte, manuale – di oltre quattrocento pagine, l’autore ripercorre la sua carriera sin da quando neppure pensava di fare lo sceneggiatore, riesanima i successi e i suoi – secondo lui, molti – insuccessi. È anche una guida alla scrittura per film seppure oggi nelle scuole di cinema si dica: «così non si fa». È una visita nelle stanze chiuse degli studios o sui set dove operano i grandi nomi. È un libro attuale, nonostante sia passato molto tempo dalla sua pubblicazione, 1983, e nonostante gli sconvolgimenti operati dalle compagnie di streaming negli ultimi anni. L’autore è morto nel 2018.

Goldman parte con l’esaminare i gruppi di potere: le star, gli executives, i registi e i produttori. Svela alcuni retroscena, aspetti del business di cui gli spettatori difficilmente sono a conoscenza, alcuni lati nascosti delle star.
Esamina gli elementi che compongono il sistema hollywoodiano. Tra questi: Los Angeles, gli agenti, i molti meeting.

Nella seconda parte l’autore racconta delle sceneggiature commissionate, i successi e i fallimenti, aspetti di un ecosistema invisibile ai più: Harper, Butch Cassidy and the Sundance Kid, All the President’s Men, Marathon Man, The Right Stuff e molti altri. Alcuni attori erano già famosi (Paul Newman, Dustin Hoffman), altri erano – prima del film che li rese famosi – emeriti sconosciuti, come Robert Redford.

La terza parte è dedicata alla scrittura di un adattamento tratto da un racconto – Da Vinci – dimenticato dallo stesso autore e riscoperto casualmente dalla figlia. Goldman ne scrive la sceneggiatura. Scopriamo in che modo approccia il lavoro e cosa pensano del risultato i professionisti che lui approccia per intervistarli e chiedere loro un parere. Ultimo arriva George Roy Hill, regista di Butch Cassidy e di molti altri film, il quale strapazza il lavoro di Goldman evidenziandone tutti i punti deboli, senza pietà. Goldman riporta tutto e obietta alcune opinioni del regista. Un esempio piuttosto crudo di ciò che ti può capitare anche se ti chiami William Goldman.

Un libro molto godibile.

(*) Non sono riuscito a trovare l’edizione italiana.

Maladeti i Zorzi Vila!

È l’imprecazione più ricorrente utilizzata dai numerosi componenti della famiglia Peruzzi, i cui membri sono protagonisti di Canale Mussolini, opera di Antonio Pennacchi, vincitore nel 2010 della sessantaquattresima edizione del Premio Strega.
Da tempo volevo leggere questo romanzo, ma, come spesso accade, altre urgenze l’avevano fatto slittare in posizione subalterna nella mia lista di letture. La notizia della morte improvvisa dello scrittore il 3 agosto scorso mi ha spinto a riposizionare il libro in cima. Bellissimo.

È la storia di una famiglia di mezzadri originari della bassa Pianura Padana tra Rovigo e Ferrara; una storia di povertà e di braccia concepite per lavorare i campi. Una storia scomoda, ma che getta, senza velleità apologetiche, un po’ di luce su quella che per molti fu la nascita, l’adesione piena e poi, per ultima, la sconfessione del fascismo. Il romanzo copre un arco temporale che va dagli inizi del ‘900 fino alla seconda guerra mondiale. Il nonno, capostipite della famiglia, aderisce inizialmente al socialismo, poi al fascismo grazie alla conoscenza di Edmondo Rossoni.

Ognuno gà le so razon

A causa della cosiddetta Quota 90, i Peruzzi perdono i pochi averi e grazie all’interessamento di Rossoni, divenuto sottosegretario del governo Mussolini, accettano di abbandonare la loro terra di origine ed emigrano nelle Paludi Pontine che il regime ha cominciato a bonificare e dove vengono loro affidati due poderi, il 516 e il 517.

Per la fame. Siamo venuti giù per la fame, altrimenti non si sarebbe mosso nessuno.

La storia procede tra mille difficoltà: economiche e di relazione con gli abitanti del luogo, i pesanti lavori di bonifica, la zanzara anofele e la conseguente malaria sempre in agguato. Poi la guerra con i suoi morti.

Fu un esodo. Trentamila persone nello spazio di tre anni – diecimila all’anno – venimmo portati quaggiù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli, dal Ferrarese. Portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua. Ci chiamavano “polentoni” o peggio ancora “cispadani”. Ci guardavano storto. E pregavano Dio che ci facesse fuori la malaria.

Lo stile in prima persona è quello del racconto orale con un linguaggio popolare intervallato dal colorito dialetto veneto-pontino, ma con frequenti citazioni letterarie. Non so come suoni il veneto-pontino, ma ho letto Canale Mussolini con la cadenza veneta costantemente nella testa; non riuscivo a farne a meno. Nella nota filologica l’autore precisa:

Il dialetto veneto-pontino che si parla in Canale Mussolini non è più, naturalmente, quello di Goldoni né – tantomeno – quello che si parla in Veneto oggi. Quando, per esempio, ci incontriamo con le mie cugine che sono rimaste lassù, qualche volta facciamo fatica a capirci. Il nostro è un impasto di rovigotto, ferrarese, trevigiano, friulano eccetera – contaminato da influenze laziali – privo di strutturazione grammaticale fissa, con le vocali ora aperte ora chiuse e le desinenze che cambiano da podere a podere e da situazione a situazione, anche spesso nello stesso parlante.

Antonio Pennacchi

I personaggi sono in parte inventati, in parte presi dalla storia.
È un libro che rimarrà a lungo nella mia memoria.